Gli episodi di bullismo riportati con sempre maggior frequenza sui social network, quali facebook o instagram, vedono sempre più coinvolti gruppi costituiti da piccoli bulli, al punto tale da giustificare l'espressione “baby-gang”. Gli atti di bullismo sono spesso compiuti da gruppi medio-piccoli, composti in genere da un leader e da una serie di complici, che possono semplicemente fornire appoggio e copertura.
Abbiamo chiesto al dr. Cosimo Santi, psicologo e psicoterapeuta, quali siano i possibili motivi che spiegano il diffondersi di atti di bullismo collettivi.
“Esistono almeno tre motivazioni principali: la prima è che il bullo rappresenta spesso peri suoi compagni un modello, che sfida l'autorità degli insegnanti e ottiene il rispetto da parte degli altri ragazzi. La seconda motivazione è che la partecipazione ad un gruppo diminuisce le inibizioni sociali, come viene dimostrato sistematicamente dalle ricerche nel campo della psicologia sociale. E in fine possiamo pensare che il gruppo determini una sorta di diluizione delle responsabilità, in virtù del fatto che i singoli membri sperimentano sensi di colpa minori per gli atti compiuti dal gruppo nel suo insieme”.
Una delle conseguenze più preoccupanti di questa dimensione di gruppo risiede nel ridottissimo tasso di denunce, di fatto gli adulti vengono a conoscenza di questi episodi solo per il loro impressionante risalto sui social network. Si stima che solo il 25% degli episodi di bullismo venga denunciato agli insegnanti o ai genitori e gli psicologi pensano che il bisogno di nascondere ciò che accade dipenda sostanzialmente da due elementi relazionali:
“Chi denuncia atti di bullismo, sperimenta facilmente una serie di ritorsioni che raramente assumono connotazioni fisiche. Molto spesso, si concretizzano nell'isolamento sociale della vittima, che viene esclusa e rifiutata anche dai compagni di classe che non hanno partecipato direttamente all'aggressione.Il secondo elemento riguarda la pressione del gruppo dei pari: appartenere a un gruppo sembra implicare una regola implicita per la quale è proibito ricorrere all'aiuto esterno per problemi sorti all'interno del gruppo”.
Le osservazioni che possono essere fatte attraverso un'attenta analisi degli atti di bullismo che i social network mettono a disposizione, portano gli psicologi a rivalutare la matrice sociale e le dinamiche gruppali in cui questi atti vengono compiuti. Infatti, ciò che permette molti atti devianti è proprio un ambiente sociale omertoso, in cui i compagni sono spettatori inermi o preferiscono fingere di non vedere. Ovviamente, queste dinamiche relazionali devono essere modificate, altrimenti qualsiasi intervento antibullismo rischia di fallire. Basta un solo bullo in una scuola per creare seri problemi, se tutti gli altri ragazzi sono spettatori spaventati e silenziosi. Diversamente, i bulli non possono agire se i compagni di classe sono disposti ad intervenire a difesa della vittima.
Per questo motivo, secondo gli psicologi che lavorano nelle scuole, contrastare il bullismo significa coinvolgere tutti coloro che vivono negli istituti di formazione, a partire dagli spettatori passivi, senza adottare un approccio patologizzante sul singolo ragazzo aggressivo.