L’apprendimento e la memoria

la memoria e l\'apprendimento

L’apprendimento costituisce uno degli aspetti fondamentali della nostra vita psichica e, al limite, della nostra stessa sopravvivenza. È indispensabile, infatti, apprendere taluni specifici comportamenti essenziali per il nostro adattamento, ed è altrettanto necessario ap¬prendere ciò che ci consente di evolvere e di pro¬gredire.
L’apprendimento si può definire come una modifica, relativamente stabile, del comportamento dovuta alla esperienza.

I termini di questa definizione si chiariscono come segue: la modifica è « relativamente stabile » in quanto la si vuole distinguere da quel tipo di modifica, del tutto temporanea, che consegue, a volte, l’ingestione di droghe. E da quel tipo di modifica del comportamento che segue un forte stato di bisogno, quale, per esempio, la fame, la sete o il sonno.
La modifica è dovuta all’esperienza: ciò significa che non è apprendimento ciò che si consegue attra¬verso la maturazione, e neppure ciò che risulta come conseguenza di una malattia o di un danno fisiologico.
Anche per quanto riguarda l’apprendimento esi¬stono, in campo psicologico, posizioni teoriche diverse. Per alcuni, esso costituisce il risultato di una catena di asso¬ciazioni; per altri il risultato di un processo di com¬prensione. Nel primo caso parliamo di apprendimento associativo, nell’ambito del quale trovano un posto fon¬damentale il condizionamento classico ed il condizio¬namento operante. Nel secondo caso, ci riferiamo ai pro¬cessi cognitivi e, in particolar modo, apprendimento per intuizione.

L’Apprendimento associativo. Il condizionamento classico costituisce l’espressione basilare dell’apprendi¬mento per associazione. Esso viene indicato anche con i termini di condizionamento pavloviano (dal nome del fi¬siologo russo Ivan Pavlov) o di condizionamento ri¬spondente. Gli elementi che lo caratterizzano sono i seguenti:
Lo stimolo incondizionato. Si chiama incondizionato lo stimolo in grado di ottenere una risposta fisiologicamente adeguata. Nel caso degli esperimenti di Pavlov, è uno stimolo incondizionato la carne, che suscita co¬stantemente la stessa risposta di salivazione.
La risposta incondizionata. Nel caso già citato, è la salivazione che costituisce, appunto, la risposta sta¬bile e fisiologicamente adeguata.

Lo stimolo condizionato. Questo stimolo è costituito da un elemento neutro introdotto dal ricercatore. In ge¬nerale si tratta di uno stimolo acustico (o luminoso) che, di per sé, non è in grado di suscitare la risposta di sali¬vazione.
La risposta condizionata. Si chiama condizionata la risposta di salivazione che viene suscitata dallo sti¬molo condizionato. Perché ciò avvenga è necessario che tale stimolo venga ripetutamente presentato in associa¬zione allo stimolo incondizionato. Per esempio, al cane viene presentato, in associazione con la polvere di carne, uno stimolo acustico o luminoso. Dopo diverse associa¬zioni, si toglie lo stimolo incondizionato, vale a dire la carne, e si presenta al cane solo lo stimolo condizio¬nato, acustico o luminoso. Il cane risponderà anche a questo stimolo con la salivazione. Ciò significa che un nuovo legame associativo si è formato tra stimolo e risposta.
Il condizionamento classico obbedisce alle leggi della estinzione e del recupero spontaneo. Quando, per troppo tempo, non si produce l’associazione tra lo sti¬molo incondizionato e quello condizionato (carne / sti¬molo neutro), la risposta si estingue. Tuttavia, l’estin¬zione non significa la definitiva perdita della risposta con¬dizionata già acquisita. Tanto vero che essa tende a ri¬comparire spontaneamente, dopo un certo intervallo di riposo. Senza, cioè, che sia stato necessario riprodurre l’associazione.

In conclusione, si può dire che il condizionamento classico costituisce una forma molto semplice di apprendimento; come tale esso può essere considerato un proficuo punto di partenza per lo studio di questo processo
Il condizionamento operante o strumentale si dif¬ferenzia da quello classico per due motivi fondamentali: innanzitutto, il soggetto si trova in una situazione di attività libera, nella quale agisce sull’ambiente; in se¬condo luogo, nella situazione sperimentale è la risposta e non lo stimolo ad essere rinforzata. Per esempio, il ratto, nella scatola preparata da Skinner con apparec¬chiature ad hoc, si muove liberamente e per caso ogni tanto appoggia la zampa su di una apposita leva. Un con¬tatore registra la frequenza di questo comportamento, stabilendo il livello operante del ratto prima del condi¬zionamento. Fatto questo, il ricercatore riempie il ser¬batoio di cibo in modo che ogni volta che il ratto preme la leva ottiene una ricompensa, vale a dire un rinforzo. Come si vede, il ratto ha agito sull’ambiente, ed ha ac¬quisito un nuovo comportamento attraverso l’associa¬zione con il cibo. In conclusione, l’attività del ratto opera sull’ambiente, ed è strumentale alla sua modifica.
Anche nel caso del comportamento operante si assi¬ste al fenomeno della estinzione della risposta ed al recu¬pero spontaneo. Sono inoltre comuni ai due tipi di condizionamento i fenomeni della generalizzazione e della discriminazione. Si parla di generalizzazione quando, una volta acquisita una risposta condizionata ad un determi¬nato stimolo, stimoli simili potranno evocare la mede¬sima risposta; e di discriminazione quando, dati due stimoli condizionati lungo un continuum, se uno di questi viene rinforzato e l’altro no, l’organismo risponde al primo e non al secondo. Questa procedura è in con¬trasto con la generalizzazione, e consente di rispondere solo agli stimoli appropriati.

Il comportamento umano è considerato, in larga mi¬sura, comportamento operante. Per esempio, andare in bicicletta, scrivere una lettera, guidare un’automobile, ecc. costituiscono comportamenti che non sono certa¬mente provocati da uno stimolo incondizionato; tut¬tavia, essi, una volta che si siano presentati, possono essere rinforzati secondo i principi del condizionamento operante.
Anche il comportamento verbale viene assunto, in questo contesto teorico, alla stregua di qualsiasi altro comportamento operante, e, come tale, suscettibile ai principi del condizionamento.
Tra i principi più importanti del condizionamento strumentale si trova quello dello « shaping » (modellaggio). Questo processo è piuttosto comune nella vita quotidiana e viene adoperato da molti che, pure, non ne conoscono l’esistenza. Per esempio, a tutti può ca¬pitare di volere insegnare ad un bambino a mettersi le scarpe, o ad usare la forchetta, o ad infilarsi il cap¬pottino. Da principio il bambino non riuscirà nel suo intento, e sarà necessario incoraggiarlo, passo passo, rinforzando via via tutti i comportamenti che si avvici¬nano a quello desiderato. Questa tecnica viene usata per ottenere, da parte degli animali, l’acquisizione di se¬quenze anche complicate di comportamento, ed è, so¬prattutto, preziosa nei tentativi di modifica dei com¬portamenti patologici.

Per concludere è necessario fare cenno ad altri tre importanti concetti:
II rinforzo positivo. Si chiama rinforzo positivo ciò che viene presentato al soggetto dopo una risposta per ottenerne la ripetizione. Si tratta, nelle situazioni sperimentali, di premi in cibo per gli animali, in gettoni per l’uomo.
Il rinforzo negativo. Si chiama rinforzo negativo ciò che viene tolto al soggetto per ottenere la ripetizione della risposta. Per esempio, si evita di dare una scossa elettrica in una situazione nella quale tale scossa era attesa.
La punizione. Si chiama punizione qualsiasi stimo¬lo spiacevole utilizzato per eliminare una risposta. La differenza tra il rinforzo negativo e la punizione consi¬ste nel fatto che la punizione è intesa ad eliminare una risposta attraverso la presentazione di uno stimolo spia¬cevole, mentre il rinforzo negativo è inteso a raffor¬zare la risposta attraverso l’eliminazione di uno stimolo negativo.
Si può notare, a questo proposito, che a livello pe¬dagogico il rinforzo positivo e quello negativo sono molto più efficaci della punizione.

L’apprendimento come processo cognitivo. Nelle torme di apprendimento più complesse e meglio ela¬borate, la percezione e la conoscenza svolgono una fun¬zione di grande importanza, e che non è in alcun modo possibile trascurare. Infatti, accanto ai processi di ap¬prendimento che utilizzano la formazione di associa¬zioni e di abitudini, oltre che la memorizzazione, è ne¬cessario sottolineare l’importanza della comprensione e della organizzazione degli elementi che si apprendono.
Nell’apprendimento cognitivo vengono incluse le at¬tività intellettuali complesse: in particolare, il pensiero, l’apprendimento intuitivo e la soluzione dei problemi.
Nel 1926 Wolfgang Kóhler conduceva una serie di esperimenti sugli scimpanzé dimostrando come si potesse arrivare alla soluzione di un problema attra¬verso una ristrutturazione del campo percettivo. Nel famoso esperimento con Sultano, questo scimpanzé riu¬sciva a raggiungere una banana posta fuori della sua gabbia, a una distanza superiore a quella del bastone posto accanto a lui, utilizzando quest’ultimo per avvici¬nare a sé un bastone più lungo, posto fuori delle sbarre. È questo un esempio di apprendimento intuitivo, ap¬prendimento spesso in contrasto con l’apprendimento per tentativi ed errori.
Nella controversia tra teorici dell’apprendimento associativo e teorici dell’apprendimento cognitivo, una posizione di compromesso viene suggerita dagli studi di Harlow, per il quale i due tipi di apprendimento sono perfettamente compatibili. Infatti, egli ritiene che, per arrivare all’apprendimento intuitivo, è necessaria una base che egli definisce « learning set ». Questa base è costituita da un apprendimento generale e da un ap¬prendimento ad apprendere: condizioni necessario per quei processi cognitivi che portano all’apprendimento per intuizione.
Questa posizione è condivisa dagli psicologi co¬gnitivi contemporanei.

I fattori dell’apprendimento. Influiscono sull’ap¬prendimento fattori individuali e fattori relativi alle con¬dizioni stesse dell’apprendimento.
Tra i primi, troviamo innanzi tutto l’intelligenza e l’età dell’individuo che apprende. Questi elementi sono, ovviamente, di importanza fondamentale e, tuttavia, non esauriscono il discorso. Infatti, essenziale è anche la motivazione dell’individuo: ossia, il suo desiderio di im¬parare. Chi sente il bisogno o il desiderio di farlo, ap¬prende di più, meglio e con maggiore rapidità.

La motivazione ad apprendere può essere incen¬tivata in molti modi: con premi e ricompense materiali o morali, e attraverso accorgimenti tecnici quali il « feed-back », o la conoscenza dei risultati.
Le condizioni fisiche e psichiche dell’individuo sono, a loro volta, elementi importanti: stanchezza, malessere, eccitazione, frustrazione, noia, ecc., sono altrettante va¬riabili delle quali è indispensabile tenere conto nel pro¬cesso di apprendimento.
Per quanto riguarda i fattori relativi alle condi¬zioni dell’apprendimento, sono fondamentali il maggiore o minore livello di significato del materiale da appren¬dere, la posizione di un determinato elemento rispetto agli altri (posizione nell’apprendimento delle serie), e la distribuzione delle prove nel tempo (apprendimento concentrato o distribuito).

3. La memoria

La memoria corrisponde ad una serie di processi che, pur se noti ormai sotto molteplici aspetti, non riescono ancora a rispondere esaurientemente ai que-siti di fondo: in che modo ricordiamo; che cosa ricor¬diamo; perché dimentichiamo. Qualcuno ha tentato di stabilire un’analogia tra la memoria ed un apparecchio di registrazione. Quest’ultimo, infatti, registra i suoni prodotti in un determinato momento, e li riproduce suc¬cessivamente. Ricordare eventi passati equivale, in que¬sto senso, ad ascoltare un nastro precedentemente im¬presso. Il registratore immagazzina sui nastri le infor¬mazioni, che riproduce traendole nuovamente da essi; allo stesso modo la nostra memoria immagazzina le in¬formazioni, per poi recuperarle e riprodurle.
Tuttavia, tra la nostra memoria ed un registra¬tore esiste una differenza sostanziale. L’apparecchio, in¬fatti, registra e riproduce fedelmente; la memoria, in¬vece, è dinamica e selettiva. Ed è tale sia nel processo di immagazzinamento delle informazioni, sia nel processo rievocativo.

Memoria e apprendimento sono fenomeni stretta¬mente connessi : non può, infatti, esservi memoria se non vi è stata, precedentemente, un’esperienza e quindi un apprendimento; non può esservi apprendimento sen¬za possibilità di memoria. Nei fatti, quindi, l’appren¬dimento si riferisce al processo di immagazzinamento delle informazioni, e la memoria ai processi di ritenzione e di riattivazione delle informazioni immagazzinate.
Tipi di memoria. La memoria presenta molteplici aspetti che possono essere identificati come tipi diversi di memoria. Ciascuno di essi esprime un modo partico¬lare di ricordare, e ciascuno di essi è suscettibile di studio con metodi differenti.
Reintegrazione. La memoria reintegratrice consiste nella ricostruzione di un’esperienza passata sulla base di indizi parziali. Si riferisce alle esperienze personali di ciascuno individuo, e può essere studiata attraverso l’introspezione o il metodo clinico. A questo tipo di memoria si riferiscono anche tutti gli studi sulla testimonianza.

Rievocazione. La memoria rievocativa si riferisce alla possibilità di riattivare informazioni e prestazioni apprese nel passato. È strettamente in rapporto con l’apprendi¬mento e può essere studiata e misurata in laboratorio, con l’utilizzazione di metodi sperimentali.
Riconoscimento. Questo tipo di memoria, secondo alcuni autori, più che un processo a sé stante, dovrebbe essere considerato un metodo per studiare e misurare la memoria in generale. In laboratorio, infatti, anziché richiedere al soggetto di ricordare un determinato ele¬mento, gli si può chiedere semplicemente di riconoscere quell’elemento in mezzo a molti altri elementi.
Il processo di riconoscimento è ancora poco chiaro, pur essendo un fenomeno di comune esperienza, e pur costituendo il processo capace di dare i migliori risul¬tati nella misura della ritenzione. Infatti, proprio in considerazione del fatto che il riconoscimento sembra tanto più facile della rievocazione, alcuni studiosi della memoria si sono posti il seguente quesito: « Si tratta di tecniche di misura, delle quali una è più sensibile del¬l’altra? Oppure la differenza di risultati si riferisce a qualche aspetto particolare del sistema generale della memoria? »

Le risposte a questo quesito sono due. La prima ritiene molto semplicemente che il riconoscimento co¬stituisce una tecnica per lo studio della ritenzione più facile e più sensibile di quella della rievocazione. Alcuni autori sostengono, in questo senso, che gli elementi del ricordo possono essere più o meno forti. Quelli più forti vengono memorizzati bene e rievocati senza diffi¬coltà; gli altri non hanno forza sufficiente per essere rievocati, ma ne hanno quanto basta per essere ricono¬sciuti. Per esempio, possiamo non essere in grado di dire il nome di un personaggio, ma saremo capaci di ri¬conoscere quel nome se ci viene presentato insieme ad altri.
La seconda risposta al quesito ipotizza, invece, una profonda differenza tra il processo di riconoscimento e quello di rievocazione. Infatti, la rievocazione richiede la ricerca dell’informazione immagazzinata e la sua ripro¬duzione corretta; il riconoscimento si limita alla iden¬tificazione dell’informazione quando ci viene presentata. Allo stato attuale delle nostre conoscenze in questo ambito, non è possibile comprendere il significato che la differenza tra questi due processi può assumere per la memoria in generale.
Riapprendimento. Si tratta, anche in questo caso, di un processo che costituisce un tipo di memoria e, al tempo stesso, una misura della ritenzione. In labo¬ratorio, si chiede al soggetto di apprendere un certo materiale, registrando accuratamente il numero di prove che sono state necessario per soddisfare un criterio di padronanza precedentemente stabilito. Dopo un certo periodo di tempo, al soggetto viene chiesto di riap¬prendere lo smesso materiale. Se nel corso del primo apprendimento è stato raggiunto un certo livello di ri¬tenzione, il secondo apprendimento avverrà con un nu¬mero minore di prove, vale a dire con un risparmio. Tale risparmio sarà maggiore o minore a seconda del¬l’ampiezza della ritenzione ottenuta con l’apprendimento precedente.
L’oblio.

Il fenomeno dell’oblio è complesso quanto quello della memoria, e per spiegarlo esistono nume¬rose ipotesi teoriche. Nessuna di esse riesce a chia¬rire esaurientemente il fenomeno, ma ciascuna di esse contribuisce alla comprensione di qualche aspetto par¬ticolare della memoria.
Teoria dell’interferenza. Secondo questa ipotesi in¬terpretativa, noi dimentichiamo per effetto di ciò che facciamo tra il momento dell’apprendimento e il mo¬mento della rievocazione. In altre parole, ogni nuovo apprendimento interferisce con la nostra capacità di ri¬cordare correttamente il precedente. Questo fenomeno si chiama: inibizione retroattiva.
Un fenomeno apparentemente opposto, ma che ha egualmente il potere di peggiorare la nostra capacità rievocativa è quello della inibizione proattiva. Per effetto di questa inibizione, un apprendimento precedente dimi¬nuisce la nostra capacità di ricordare un nuovo apprendimento.
L’inibizione retroattiva e quella proattiva sono, pertanto, fenomeni particolari che interferiscono con la nostra capacità di ritenzione e di riattivazione. E questa interferenza appare sufficiente a spiegare almeno una parte non irrilevante di ciò che si dimentica.

Teoria del disuso. Si ritiene comunemente che, con il passare del tempo, i ricordi svaniscano dalla nostra mente. Si ritiene, cioè, che il ricordo segni come una sorta di traccia nel cervello, e che questa traccia col tempo, e per effetto dei processi metabolici, decada pro¬gressivamente fino a scomparire.
Questa teoria è certamente la più antica e la più diffusa: tuttavia, almeno allo stato delle nostre cono¬scenze, non esistono reali possibilità di verificarne l’esat¬tezza. Indubbiamente, le modificazioni organiche cui sog¬giace il nostro sistema nervoso col procedere dell’età possono favorire i processi dell’oblio; esistono, però, anche alcuni dati nettamente in contrasto con tale spie¬gazione.
Innanzi tutto, la traccia mnestica è soltanto un costrutto ipotetico. In secondo luogo, appartiene all’espe¬rienza comune la constatazione di ciò che accade a molte persone anziane: esse dimenticano fatti recenti e ricor¬dano, spesso con vivacità e precisione, eventi della loro giovinezza.
Infine, esistono apprendimenti che vengono dimen¬ticati, ed altri che non vengono dimenticati, a prescin¬dere dal tempo che trascorre. Per esempio, le abilità motorie in genere, e certo materiale verbale, vengono dif¬ficilmente dimenticati.
Oblio motivato.

Questa teoria, a differenza delle precedenti, prende in considerazione le motivazioni dell’individuo, i suoi bisogni ed i suoi desideri. Ritiene, cioè, che l’individuo possa essere più o meno motivato a ricordare questa o quella informazione, un’esperienza piuttosto che un’altra.
Secondo il concetto freudiano di rimozione, molti dei nostri ricordi diventano inaccessibili in quanto, se riportati alla coscienza, potrebbero suscitare angoscia e sensi di colpa. Questi ricordi verrebbero rimossi pro¬prio per evitare che la loro rievocazione provochi sof¬ferenza all’individuo.
Questa particolare interpretazione dell’oblio è ge¬neralmente accettata dagli psicologi, pur se, a livello sperimentale, non esistano ancora elementi sufficienti per una verifica ed una validazione esenti da controversie.

Attribuire alla memoria, e quindi all’oblio, una ca¬pacità dinamica e selettiva in dipendenza delle motiva¬zioni individuali, pone, infine, un altro interrogativo: quando una informazione viene immagazzinata nella memoria, vi resta per sempre? In altri termini, quando non ricordiamo è perché effettivamente la traccia è stata distrutta, o non piuttosto perché vi è una forma di inibizione che impedisce la riattivazione dell’informa¬zione?
A questi interrogativi non è attualmente possibile rispondere esaurientemente. Esistono, tuttavia, elemen¬ti sufficienti a consentirci di ritenere che le informazioni vengano immagazzinate dal nostro cervello molto più stabilmente di quanto non si possa ritenere sulla base dell’esperienza quotidiana.
Le prove di ciò vengono fornite dai casi di stimola¬zione elettrica del cervello, nei quali si ha la rievoca¬zione nitida e vivace di ricordi appartenenti anche ad epoche lontane della propria vita.
Elaborazione dell’informazione.

Questa ipotesi pro¬pone l’esistenza, nel nostro organismo, di due diversi meccanismi per l’immagazzinamento delle informazioni. Vi sarebbero, cioè, due sistemi distinti: la informazione in entrata si colloca nel primo sistema, detto della me¬moria a breve termine. Qui, se non viene fatta oggetto di attenzione, si cancella rapidamente. Altrimenti, passa nel secondo sistema, quello della memoria a lungo ter¬mine, nel quale troverà una collocazione stabile e relati¬vamente permanente. Perché questo passaggio possa av¬venire, l’informazione deve subire una sorta di processo di «codificazione»; essa, cioè, deve essere fissata attra¬verso un qualche espediente mnemonico, come, per esem¬pio, la ripetizione, l’uso di schemi di organizzazione o di immagini mentali, ecc. Tutto ciò che è presente alla nostra mente appartiene alla memoria a breve termine; tale sistema, o pro¬cesso, ha una « capienza » limitata e, per tale motivo, non è possibile immagazzinarvi troppe informazioni. Al¬cune di esse scompariranno, altre passeranno al sistema della memoria a lungo termine, la cui capienza è illi¬mitata.
Tutto ciò che sappiamo, ma che non è presente alla nostra mente, ha la sua collocazione nella memoria a lungo termine.
Quando rievochiamo un’informazione, non facciamo altro che spostarla nuovamente dalla memoria a lungo termine a quella a breve termine.
Anche per quanto riguarda questa teoria dei due processi, la scienza non possiede ancora prove esaurienti della sua effettiva validità. Prove indirette vengono, però, da alcune patologie della memoria: difatti, pazienti con lesioni in una particolare area dei lobi temporali mo¬strano un’impossibilità a trasmettere le informazioni dal sistema della memoria a breve termine a quello della memoria a lungo termine. Questi pazienti ricordano per¬fettamente tutto ciò che avevano appreso e sperimentato prima della lesione, ma non sono più capaci di rievocare le informazioni ricevute successivamente. Per esempio, ricordano perfettamente il loro vecchio indirizzo, ma non riescono a tenere a mente quello nuovo. Leggono con normale capacità di comprensione un libro, ma pos¬sono rileggerlo all’infinito senza accorgersene e senza pro¬vare alcun senso di familiarità.

4. I processi cognitivi

La conoscenza è costituita da un insieme di processi attraverso i quali è possibile conoscere e controllare tutto quanto ci circonda. Una definizione famosa della co¬noscenza la riferisce a tutti quei processi attraverso i quali l’input sensoriale è trasformato, ridotto, elaborato, immagazzinato, recuperato ed usato (Neisser, 1967). In termini diversi la percezione ci fa acquisire l’informazione; la memoria la immagazzina, e il pensiero la utilizza. trasformandola in configurazioni logiche.
La psicologia cognitiva studia numerosi fenomeni, senza ridurre il campo di attenzione a comportamenti isolati, e senza rifuggire dall’uso di concetti così detti «mentalistici», come le idee, i pensieri e le imma¬gini. I processi implicati nella psicologia cognitiva sono molti: la percezione e la memoria innanzitutto; e poi il linguaggio, il pensiero, la formazione dei concetti, e, in generale, tutte quelle che possono essere considerate attività cognitive.
Il linguaggio. Il linguaggio assolve a tre funzioni molto importanti: consente la comunicazione; permette di immagazzinare una gran quantità di informazioni che non potrebbero, tutte, essere conservate dalla memoria (linguaggio scritto); consente il processo di pensiero at¬traverso un sistema di simboli collegati tra loro da una serie di regole.
Tutti i linguaggi parlati dall’uomo si basano su un numero limitato di suoni diversi; tale numero va da un minimo di 15 a un massimo di 85. Questi suoni di base si chiamano fonemi.

La più piccola unità che, in un dato linguaggio, possiede un significato si chiama morfema. Generalmente il morfema è composto di due o tre fonemi. Le parole sono formate da uno o più morfemi.
Il linguaggio non è costituito da morfemi o da parole isolati: i morfemi si organizzano in parole, e le parole si organizzano in frasi. Queste organizzazioni ob¬bediscono a regole proprie di ciascuna lingua. Le regole, che governano la posizione e la successione di suoni, morfemi e parole, si chiamano regole grammaticali. Senza il rispetto di queste regole, le frasi non sarebbero com¬prensibili, e la comunicazione ne risulterebbe gravemente ostacolata.
Lo sviluppo del linguaggio. Lo sviluppo del linguag¬gio dipende dalla maturazione e dall’apprendimento e pro¬cede secondo un andamento che è relativamente simile per tutti i bambini. Nei primi mesi di vita il bambino produce una gamma crescente di suoni che si associano in combinazioni sempre più ampie e complesse. Al di sotto dei nove mesi, il bambino imita le sillabe che ode, ed è capace di produrre tutti i suoni possibili di qualsiasi lin¬guaggio. Questa fase, detta della lallazione, non si distin¬gue tra bambini dei più diversi contesti linguistici. Non è ascoltando la lallazione di un lattante che potremmo capire la sua nazionalità.
Dopo i nove mesi, la gamma dei suoni ripetuti dal bambino si restringe, e si concentra su quelli che costi¬tuiranno le sue prime parole, parole che rispecchie¬ranno, naturalmente, il linguaggio parlato intorno al bambino.

Indipendentemente dal linguaggio parlato intorno a lui, le prime parole che il bambino pronuncia sono quelle di ma-ma, pa-pa: ciò semplicemente perché esse sono costituite da una consonante e da una vocale più facili da pronunziare rispetto alle altre.
Tra i dodici e i diciotto mesi, il bambino comincerà ad usare alcune parole riferendole con precisione agli oggetti corrispondenti. Queste parole saranno per un certo periodo di tempo usate da sole, acquistando il va¬lore di « parole-frasi ». Per esempio, la parola « mamma » potrà assumere il significato di: mamma ti voglio bene, mamma voglio mangiare; mamma prendimi in braccio, ecc. Successivamente, il bambino acquisirà molti nuovi vocaboli che, man mano, assocerà tra loro, prima due parole, poi tre, fino a raggiungere la cosiddetta « frase telegrafica ». In questa fase di sviluppo, il bambino riesce a ripetere le frasi dell’adulto, rispettando l’ordine delle parole, ma eliminando quelle meno importanti. Per esempio, se la mamma dice: « la bambola è nella ca¬mera del papa », il bambino ripeterà: « bambola camera papa ».
Il bambino che, fino ad una certa età, ha ripetuto senza nessuna difficoltà le forme grammaticali così come pronunciate dall’adulto, improvvisamente sembra cercare un sistema di regole generali. Per esempio, se era ca¬pace di dire « il fuoco è acceso », tenderà a dire « il
fuoco è accenduto »; se diceva « la mamma che faceva? », dirà « la mamma che fava? ». Dopo i tre o quattro anni cesserà da questo particolare tipo di errore raggiungendo la capacità di modificare le regole acquisite precedente¬mente, e di adattarvi le eccezioni.

Sostanzialmente, nel processo di sviluppo del lin¬guaggio si possono distinguere tre aspetti:
il primo è relativo al ritmo con il quale il bam¬bino acquisisce nuovi vocaboli, e arricchisce la costru¬zione della frase. Questo ritmo varia da individuo a individuo ma è comunque relativamente rapido;
il secondo è relativo all’ordine seguito dal bam¬bino nell’apprendimento della grammatica: quest’ordine è costante;
il terzo si riferisce al modo con il quale il bam¬bino impara la grammatica. Questo particolare aspetto dello sviluppo del linguaggio non è ancora del tutto chiarito. Infatti, il bambino non si limita ad imitare ciò che ascolta; al contrario, egli è sensibile alla struttura¬zione linguistica, tanto da apparire capace di una sorta di vera e propria analisi, intesa a sperimentare più modelli. Attraverso il tempo e l’esperienza il bambino troverà il modello giusto per comunicare con gli adulti intorno a lui.
Teorie sullo sviluppo del linguaggio. Condiziona¬mento classico e condizionamento operante. Secondo questa interpretazione, buona parte del linguaggio è ap¬preso attraverso un processo associativo. Per esempio, il significato della parola « caldo » si acquisisce con una ripetuta associazione linguaggio un aspetto di creatività e di originalità, del quale non si può dar conto in termini di condiziona¬mento. Il bambino piccolo, infatti, usa spesso forme ver¬bali e associazioni di suoni che non ha udite da nes¬suno, e che non ha usate precedentemente.
Psicolinguistica.

Questa teoria sottolinea soprattutto gli aspetti biologici dello sviluppo del linguaggio: l’uomo e « preparato » ad acquisire il linguaggio, e parla in quan¬to possiede una qualità innata e predeterminata per tale acquisizione (Lenneberg, 1969).
Nell’ambito di questa teoria, trova posto anche l’ipo¬tesi secondo la quale il bambino non impara sequenze di parole ma piuttosto regole di grammatica. La com¬plessità di queste regole consentirebbe, infatti, l’uso creativo o generativo del linguaggio (Chomsky, 1968).
Pensiero e linguaggio. Tra pensiero e linguaggio esiste un rapporto molto stretto; sulla natura e sulla direzione di questo rapporto vi sono, tuttavia, posizioni e interpretazioni diverse.
Generalmente, si ritiene che sia il pensiero a de¬terminare l’uso del linguaggio. Per i teorici di questa posizione, il linguaggio è uno strumento per esprimere i nostri pensieri; e Ì nostri pensieri sussistono a pre¬scindere dal tipo di linguaggio che usiamo per esprimerli.
Per altri, al contrario, sarebbe il linguaggio a de¬terminare il pensiero. Per Whorf, che era uno stu¬dioso delle lingue parlate dagli indiani d’America, esistono linguaggi che hanno strutture totalmente dis¬simili, tali da determinare modi diversi di concepire il mondo. Questa posizione teorica viene indicata col ter¬mine di ipotesi della relatività linguistica.
La formazione dei concetti. Il concetto è un sim¬bolo che rappresenta una classe di oggetti o di eventi che posseggono proprietà comuni.

Quasi tutte le pa¬role rappresentano un concetto, tuttavia esistono con¬cetti che non si riferiscono al linguaggio delle parole. Per esempio, in laboratorio, gli animali apprendono il concetto di triangolo senza possedere il termine corri¬spondente.
Anche per quanto riguarda la formazione dei con¬cetti esistono ipotesi diverse. La più nota è quella che attribuisce questo particolare apprendimento ad un pro¬cesso associativo, che implica la generalizzazione e la discriminazione. Per esempio, il bambino impara il con¬cetto di «cane», e per un certo tempo generalizza il termine includendovi altri animali. Gradualmente, uti¬lizzando le correzioni fornite dall’ambiente, procede a discriminazioni successive fino a restringere il signi¬ficato del termine in maniera corretta.
Il significato. La comunicazione si basa sostanzial¬mente su un reciproco scambio di significati. È, per¬tanto, fondamentale in psicologia affrontare il problema dal punto di vista della funzione sociale del linguaggio. L’interazione, difatti, è possibile soprattutto attraverso il linguaggio; ma perché vi sia reale comunicabilità è ne¬cessario che gli individui condividano conoscenze, biso¬gni e atteggiamenti.
Una prima distinzione importante, a questo fine, è quella tra significato denotativo e significativo conno¬tativo.

Il primo si riferisce alla identificazione dell’oggetto cui il simbolo verbale si riferisce. Questa identificazione può essere fatta semplicemente consultando un voca¬bolario.
Il secondo è, invece, relativo alle componenti im¬plicite del significato: alle idee, ai sentimenti, alle espe¬rienze che ogni parola evoca in ciascuno di noi.
Possiamo tutti essere d’accordo sul significato deno¬tativo della parola «mamma», o della parola «scuola»; ma il significato connotativo di questi concetti sarà di¬verso per ciascuno di noi, perché diversi sono i nostri vissuti, e diversi i nostri atteggiamenti nei loro confronti.
La misura del significato. Alcuni studiosi (Osgood, Suci e Tannenbaum, 1955 e 1957) hanno elaborato una tecnica capace di rilevare il significato implicito o con¬notativo dei concetti. Questa tecnica viene generalmente indicata col termine sintetico di differenziale semantico ed è costituita da una serie di aggettivi bipolari, disposti in scale secondo tre diversi fattori: il fattore valutativo (scale di aggettivi come «buono-cattivo»; «giusto-ingiu¬sto», ecc.); il fattore di potenza (scale come «forte-debole»); e il fattore di attività (scale come «attivo-passivo»).

Il significato che un individuo attribuisce ad un determinato oggetto è dato dal profilo delle sue va-lutazioni sulle differenti scale di aggettivi.
La soluzione dei problemi. I processi implicati nella soluzione di un problema sono molteplici: la percezione, l’apprendimento, la memoria, la creatività, il linguaggio, la motivazione, ecc.. Per questo motivo, la soluzione dei problemi costituisce un campo di parti¬colare complessità.
In linea generale si può dire che, mentre per alcuni questo processo costituisce un tipo particolare dell’attività cognitiva, per altri tutta l’attività cognitiva ha il carattere della « soluzione di problema ».
Il processo, che tale attività implica, si svolge per fasi successive, e raggiunge lo scopo, secondo alcuni, attraverso tentativi ed errori; secondo altri, attraverso una ristrutturazione percettiva, cioè per intuizione.