Dopo i recenti casi della mucca pazza e dei mangimi alla diossina, l’esigenza di garantire alimenti più sani è diventata più pressante. Il tema della sicurezza alimentare è sempre più presente anche tra le nuove frontiere della politica internazionale. Le dinamiche stesse del commercio mondiale chiedono infatti che siano le decisioni prese in ambito sovranazionale a risolvere i problemi della sofisticazione degli alimenti. Non bastano infatti leggi nazionali per tentare di rendere più sicuri carni, ortaggi e latticini provenienti da luoghi a volte dall’altra parte dell’emisfero e neppure sono sufficienti controlli locali per assicurare al consumatore la necessaria tranquillità. Grandi sforzi sono stati ultimamente condotti dall’Unione Europea in questo senso e significativa la proposta della Francia che ha voluto sottolineare il tema in occasione del summit degli otto Paesi più industrializzati.
La sensibilità politica verso questi argomenti è accompagnata da una richiesta dei consumatori e dall’evidente perdita economica che timori più o meno fondati possono causare all’economia. Le esigenze di mercato hanno determinato negli ultimi decenni un cambiamento nella produzione dei cibi che ha relegato a posizioni marginali i tradizionali metodi di coltivazione e allevamento e insieme ha dato sempre più spazio ai cibi e alle bevande conservate.
Se da una parte le profonde trasformazioni hanno permesso un maggiore controllo e se nei Paesi più industrializzati è stata complessivamente debellata la piaga della fame, non si può dire però che la sicurezza dei cibi sia sempre assicurata.
Attualmente risulta notevolmente più conveniente per gli allevatori l’utilizzazione di farine di origine animale, capaci di diminuire sensibilmente i tempi necessari per la crescita del bestiame e quindi la loro macellazione e la loro vendita. È infatti noto che le proteine di origine vegetale, derivate quindi dai cereali e dai legumi hanno al contrario una più scarsa capacità di stimolazione della crescita. Ma l’esigenza di garantire cibi sicuri ha contribuito ad aprire il dibattito sull’utilizzazione di questi prodotti.
I potenziali pericoli insiti nel costringere a un’alimentazione non completamente vegetariana animali erbivori sono ormai conosciuti. L’epidemia di BSE, nota come il già citato morbo della mucca pazza, ne ha infatti evidenziato i rischi insieme alla inadeguatezza dei sistemi di allevamento intensivo non minimamente rispettosi delle naturali esigenze degli animali. Non si può trovare una risposta all’esigenza della sicurezza alimentare affrontando un solo aspetto della situazione. Ingerire infatti carne di animali nutriti con mangimi vegetali non elimina completamente i rischi. Anche in Europa, per esempio, dove al contrario degli Stati Uniti, non è legalmente possibile somministrare ormoni, è comunque lecita l’utilizzazione degli antibiotici per prevenire infezioni e l’ingestione di queste sostanze in alte quantità attraverso la carne può produrre nel consumatore l’insorgenza di resistenza o di allergia a questi medicinali. E il problema non è circoscritto alla carne, ma investe anche il latte e derivati che possono conservare tracce di sostanze chimiche.
Il consumo di antibiotici nell’allevamento aumenta anno dopo anno e alcuni Paesi, come la Svezia, hanno deciso per questo di tentare di limitarne l’uso vietandone la somministrazione come additivi e stimolatori della crescita.
Senza dubbio la sicurezza alimentare passa attraverso un profondo rinnovamento dell’industria e dell’agricoltura, senza il quale qualsiasi tentativo risulterà parziale e limitato. Nei prodotti agricoli si possono annidare residui chimici, derivati dall’uso di fitofarmaci, e non solo in quelli consumati direttamente. Frutta e verdura contaminati da queste sostanze vengono utilizzate anche per produrre mangimi che non possono quindi essere considerati sicuri solo per il fatto di essere completamente vegetali.
Nel caso poi in cui la scelta dell’Unione Europea si orientasse per una graduale messa al bando delle farine animali, occorrerebbe importare parte della materia prima, ma sarebbero da individuare Paesi sicuri, dove cioè vengono garantite norme di sicurezza alimentare uguali a quelle vigenti nell’Unione.
Gli Stati Uniti, grandi produttori di soia e di mais, sarebbero probabilmente da evitare, poiché le norme vigenti lasciano una più ampia libertà nella coltivazione e nell’utilizzazione di verdura geneticamente modificata rispetto all’Europa, ma anche l’importazione da molti Paesi comporterebbe dei problemi per i livelli di residui di pesticidi ammessi, spesso superiori rispetto alla normativa europea. Il tema merita quindi attenzione a livello internazionale e lo stesso ambito europeo può non essere sufficientemente ampio. Secondo alcuni esperti i passi che si stanno compiendo in questo periodo non sono però ancora adeguati alle esigenze di sicurezza, anzi il numero di sostanze dannose aumenta proporzionalmente al tasso di mortalità per cancro. Se infatti una parte sempre più consistente di consumatori mostra attenzione per i prodotti biologici, quelli cioè coltivati senza l’utilizzazione della chimica, e anche grandi catene di distribuzione e colossi del settore alimentare hanno trovato conveniente proporre linee di alimenti biologici, la quantità di prodotti certificati immessi sul mercato rappresenta una minima fetta del mercato alimentare, senza contare che i prezzi risultano più alti e il loro utilizzo è per questo penalizzato. Accanto a norme che possano garantire severi controlli è necessario poi che i consumatori stessi siano più preparati per poter scegliere gli alimenti più sicuri, trovando il modo per consumare meglio, senza sprechi.
Secondo la normativa, i prodotti e non solo frutta e verdura, ma anche pasta, latte, formaggi, uova, carne e così via, devono essere certificati per poter essere venduti come biologici e in Italia sono nove gli organismi responsabili di queste certificazioni. Il nome dell’Ente preposto al controllo deve poi apparire sull’etichetta del prodotto. La normativa non prevede invece precisi canoni per i prodotti a lotta integrata, quella cioè che limita al minimo l’uso di prodotti chimici, e quindi ogni produttore o distributore certifica i propri, generalmente immessi sul mercato con prezzi minori rispetto a quelli biologici. In questo caso non vengono solitamente utilizzati conservanti dopo la raccolta e si tenta di utilizzare insetti utili per eliminare i parassiti, anche se sopravvive comunque l’uso della chimica.
Ma la frutta e la verdura non biologica e non a lotta integrata, generalmente la più facile da trovare, quanto è sicura? Secondo un’indagine del Ministero della Sanità, nel 1997 l’1,7 % su 7.356 campioni ortofrutticoli analizzati è risultato non in regola con i limiti consentiti e 2.526 campioni presentavano residui di fitofarmaci consentiti. Ma tra questi ultimi sono presenti ancora alcuni dannosi e ci vorranno anni perché vengano banditi completamente. Numerosi sono i pesticidi oncogeni e mutageni, tra gli erbicidi i clorofenoli si sono dimostrati oncogeni sulle cavie di laboratorio, ma non ci sono prove che dimostrino lo stesso effetto di questi ultimi sull’uomo. Lunga poi la lista degli insetticidi pesantemente dannosi alla salute, come i bifenili, i policlorurati e il DDT, messo al bando nei Paesi occidentali, ma ancora utilizzato nel Terzo Mondo.