Orzo, veccia, corna di cervo, bulbi di narciso, gomma, farina di frumento di Toscana e miele: ecco gli ingredienti necessari per realizzare una delle maschere di bellezza che il poeta latino Ovidio (43 a.C. – 17 d.C.) propone nella sua operetta Medicamina faciei femineae (Rimedi per il viso della donna). Dosando e mescolando con cura questi componenti, alcuni dei quali devono essere precedentemente tritati e filtrati, si ottiene una crema che, a detta del poeta, ha il potere di rendere qualsiasi pelle più liscia e splendente di uno specchio.
Il poemetto di Ovidio, insieme ad altre testimonianze letterarie di vari autori latini, mostra quanto fosse frequente nella Roma imperiale, almeno per gli appartenenti alle classi più agiate, ricorrere a preparati cosmetici per la cura del proprio corpo e servirsi del trucco per nascondere eventuali difetti e imperfezioni o anche soltanto per esaltare la bellezza naturale del viso. Al tempo di Ovidio la cosmesi era considerata una vera e propria arte e le matrone utilizzavano prodotti estremamente sofisticati per apparire più seducenti; tuttavia anche in epoche più remote quella del maquillage era un’abitudine piuttosto diffusa nel mondo femminile.
Già nell’antica Grecia accanto agli olii profumati, che a quanto si legge in Omero non mancavano neppure nella toeletta delle dee, le donne utilizzavano cosmetici e belletti ricavati da piante, sostanze animali o elementi di origine minerale. La base del trucco era costituita da un preparato contenente biacca (carbonato di piombo), che conferiva alla pelle il colore bianco richiesto dai canoni di bellezza femminile allora vigenti; una sorta di rossetto a base di ocra serviva poi a dare alle gote e alle labbra un po’ di colorito, segno di buona salute. Questo era il maquillage ideale per le signore “oneste”, cui non si addiceva un trucco troppo pesante e vistoso; le cortigiane, invece, che per ragioni per così dire professionali avevano un atteggiamento più audace e disinvolto nell’uso dei belletti, utilizzavano in aggiunta matite nere o brune per sottolineare gli occhi e le sopracciglia.
Vi era poi chi rifiutava completamente ogni forma di “contraffazione” dell’aspetto naturale, come si legge, per esempio, nell’Economico dello storico greco Senofonte (V-IV secolo a.C.): Isomaco, uno dei personaggi di quest’opera, racconta infatti di aver un giorno rimproverato la moglie poiché “era tutta imbellettata con molto cerone per sembrare ancora più bianca di quanto non fosse e anche con molta cipria per apparire ancora più rosea di quanto in realtà non fosse”; riferisce inoltre che, per spiegare meglio alla compagna la ragione di tale rimprovero, le aveva fatto notare come lei stessa preferisse un marito forte e sano, quindi con un bel colorito, piuttosto che uno “unto con del minio o truccato sotto gli occhi con della cipria rosa”. Era dunque piuttosto frequente che anche gli uomini nella Grecia antica ricorressero a prodotti cosmetici per esaltare la propria bellezza fisica così come, del resto, era abituale anche nella toeletta maschile l’uso di unguenti e olii profumati.
Di fronte alla legge il trucco, al pari dei gioielli e degli ornamenti di ogni tipo, era considerato incompatibile con il dolore della morte, pertanto nei periodi di lutto non era lecito mostrarsi con il viso imbellettato, così come non lo era indossare abiti che non fossero bianchi o scuri, portare acconciature elaborate e adornarsi il corpo con monili e oggetti preziosi.
Nel mondo romano dal I secolo in poi l’uso dei cosmetici divenne abituale per le donne, che avevano a disposizione maschere di bellezza, rossetti, profumi e balsami ricavati da piante mescolate con olii vegetali o grassi animali. Una gamma di prodotti alla quale per la verità attingevano abbondantemente anche gli uomini, sempre che le condizioni economico-sociali consentissero loro di dedicare una parte della giornata alle cure estetiche. In mancanza di personale specificamente addetto alla toeletta del padrone, tali cure erano per lo più affidate ai tonsores, i barbieri, che esercitavano la loro professione all’interno di apposite botteghe chiamate tonstrina, assai numerose in tutte le città dell’Impero. Oltre a occuparsi dell’acconciatura dei clienti, che spesso non si accontentavano di taglio e piega, ma richiedevano anche l’uso di tinture e profumi per i loro capelli, il tonsor stendeva belletti sulle guance dei più vanitosi e applicava piccoli dischetti di stoffa per nascondere difetti e irregolarità del viso. In uno dei suoi epigrammi il poeta latino Marziale, attaccando l’ostentata eleganza di un certo Rufo la cui “chioma impomatata riempie di fragranza tutto il teatro di Marcello”, sottolinea come la fronte di costui sia ricoperta da una vera e propria “costellazione di nei finti”.
Benché dunque anche nel mondo romano gli uomini non disdegnassero di ricorrere a prodotti di bellezza, erano soprattutto le donne a fare uso di cosmetici e belletti per accrescere il proprio fascino. Le cure estetiche della matrona erano affidate all’ornatrix, un’ancella che si occupava sia dell’acconciatura sia del maquillage della padrona, nonché della sua depilazione. Poiché anche a Roma, come in Grecia, il canone di bellezza esigeva candore e luminosità per la pelle femminile, come prima cosa l’ornatrix stendeva sul viso e sulle braccia della sua signora uno strato di biacca e gesso, che costituiva la base del trucco. Secondo quanto riferisce Plinio il Vecchio (I secolo), le donne romane utilizzavano talvolta anche preparati a base di sterco di coccodrillo, che aveva un effetto sbiancante sull’epidermide. Il rosso delle gote e delle labbra veniva poi sottolineato con l’ocra o con la feccia di vino, mentre intorno agli occhi e sulle ciglia si applicava polvere di antimonio o nero fuliggine.
Pomate, linimenti e belletti, insieme a tutti gli altri accessori necessari per la toeletta e per il trucco della matrona, erano gelosamente custoditi in un armadio della camera da letto, affinché non cadessero mai sotto gli occhi del marito gli strumenti di quell’arte che, come dice Ovidio nell’Ars amatoria, “abbellisce l’aspetto delle donne a patto che sia segreta”.