Benché già presso le antiche civiltà della Mesopotamia e dell’Egitto la medicina avesse conosciuto un certo sviluppo, solo nella Grecia del V secolo a.C. giunse a maturazione una vera e propria scienza medica, intesa come insieme di conoscenze teoriche e di applicazioni pratiche gestite da professionisti dotati di una specifica formazione intellettuale e di una notevole abilità manuale. Ma la nascita di questa téchne (arte o specialità professionale) non determinò la scomparsa di pratiche di guarigione molto più antiche legate alla sfera magico-religiosa e in particolare al culto di Asclepio, un semidio cui si attribuivano capacità terapeutiche. Interpreti dei responsi emessi dalla divinità guaritrice erano i suoi sacerdoti, gli asclepiadi, che esercitavano la “professione” presso gli asclepiei, ossia i santuari dedicati al semidio. Il più celebre di questi luoghi sacri, dove i malati si affidavano alla sapienza e alla potenza guaritrice degli asclepiadi, sorgeva a Epidauro: qui infatti, secondo la tradizione, sarebbe nato Asclepio, figlio di Apollo e della mortale Coronide.
Una volta giunti al santuario gli ammalati sostavano nell’ábaton, una struttura posta davanti al tempio, e attendevano immersi nel sonno la miracolosa guarigione o un suggerimento, sotto forma di un responso oracolare che i sacerdoti avrebbero poi interpretato, sulla terapia da seguire. Era il cosiddetto sonno incubatorio, il momento più importante del rituale da compiere presso l’asclepieo. Per accedere al santuario, che era aperto a tutti, era necessario portare un’offerta, costituita in genere da un animale sacrificale; i malati più abbienti erano però tenuti al pagamento di una sovratassa la cui entità veniva stabilita dal personale d’accoglienza incaricato di ricevere i pellegrini e di registrare le offerte. Dopo aver ottenuto la guarigione i pazienti facevano incidere su tavolette votive i sintomi della loro malattia e i trattamenti ricevuti: queste tavolette venivano depositate nella thólos, un’edicola circolare nella quale erano allevati i serpenti, animali sacri al dio perché simbolo della forza vitale in perpetuo rinnovamento.
Come si è detto, il filone della medicina asclepiadea continuò a prosperare in Grecia anche in seguito allo sviluppo, avvenuto a partire dal V secolo a.C., di una vera e propria disciplina medica che prese decisamente le distanze dalla tradizione magico-religiosa. Fondatore di questa nuova medicina “laica” fu Ippocrate, originario dell’isola di Cos e vissuto tra il V e il IV secolo a.C. Sotto il suo nome è stato tramandato un Corpus di oltre settanta trattati di argomento medico, scritti in realtà da diversi autori e raccolti dagli studiosi della Biblioteca di Alessandria d’Egitto nel III secolo a.C. La polemica contro le pratiche magiche e superstiziose, che attribuivano a sproposito un’origine divina alle patologie, è una delle tematiche più innovative all’interno del Corpus hippocraticum, nel quale la malattia è definita come uno squilibrio tra l’ambiente esterno e il corpo umano. Tale squilibrio si ripercuote sui quattro umori situati all’interno del corpo (sangue, catarro, bile gialla e bile nera) modificandone la quantità o la qualità. Per tornare allo stato di salute occorre ricostituire l’equilibrio attraverso la ricerca del clima, del cibo e delle bevande più adatti.
Nella polis greca del V-IV secolo a.C. la medicina sistematica non era solo al servizio del singolo individuo, ma dell’intera collettività, giacché il governo garantiva la presenza di un professionista che si occupasse della salute di tutti i cittadini. Il medico, che generalmente esercitava la sua professione in una bottega (iatréion) situata presso l’agorà (la piazza del mercato), era retribuito pubblicamente mediante un’imposta speciale (iatrikón); in cambio si impegnava a prestare la sua opera in città per un certo periodo di tempo e a rinunciare all’onorario nei casi in cui i pazienti non avessero avuto i mezzi per pagarlo.
A partire dal III secolo a.C. la scienza ippocratica venne importata a Roma, dove si affiancò a una medicina “domestica” autoctona, a sua volta influenzata da pratiche magico-popolari di derivazione etrusca. Per l’abbondanza di acque sorgive salutari e di piante medicinali, l’Etruria è in effetti definita terra “ricca di vegetazione e di farmaci” dal greco Teofrasto (IV-III secolo a.C.), che attribuisce inoltre agli Etruschi la qualifica di “popolo preparatore di medicamenti”. Tra le erbe medicamentose utilizzate nell’area etrusco-laziale veniva privilegiato il cavolo, considerato come una sorta di panacea e ritenuto particolarmente adatto per le partorienti, alle quali era prescritto in forma di decotto.
Nella Roma arcaica la funzione di tutore della salute dell’intera famiglia, schiavi e animali compresi, era prerogativa del pater familias. Questa tradizione, ispirata essenzialmente al principio del “fai da te”, continuò a essere seguita e difesa dai nuclei più conservatori anche nel momento in cui cominciarono a giungere dal mondo greco i primi medici professionisti formatisi sulla base delle teorie scientifiche di derivazione ippocratica. Catone il Censore, il più noto esponente della corrente tradizionalista e antiellenica nella Roma del II secolo a.C., denunciava gli influssi negativi della cultura greca sul popolo romano lamentando fra l’altro l’abbandono della medicina domestica ed esortando i suoi concittadini a non avvalersi affatto dei medici di professione. Egli infatti aveva raggiunto una veneranda età e aveva mantenuto in buona salute la sua famiglia provvedendo sempre di persona alle cure necessarie. Ormai, però, nella società latina la via alla progressiva ellenizzazione dell’arte medica, come del resto, più in generale, della cultura e del sapere tecnico-scientifico, era definitivamente aperta e in età imperiale la medicina a Roma sarebbe stata totalmente grecizzata.
I primi secoli dell’Impero furono caratterizzati dalla presenza di professionisti della salute sempre più specializzati, che esercitavano la loro arte in ambiti estremamente settoriali. Contro l’eccessivo specialismo medico della sua epoca si scaglia il poeta latino Marziale (I secolo d.C.), che in un epigramma ironizza: “Vi sono tanti medici specialisti a Roma, dal dentista Casullio al dottor Igino che brucia le ciglia che irritano gli occhi, a Fannio che vanta un metodo per asportare l’ugola procidente senza resecarla, a Eros che riesce a cancellare le cicatrici degli schiavi, a Ermete che è il taumaturgo degli erniosi”. Ma accanto agli specialisti non mancavano a Roma i medici “generici”, come il celebre Galeno, al cui nome si lega un importante corpus di opere latine sulla medicina. Medico di corte dell’imperatore Marco Aurelio, Galeno si richiamava al modello ippocratico, ma diversamente dall’illustre predecessore greco egli rappresentava il tipo del professionista colto che non solo era esperto nella sua disciplina, ma sapeva anche di matematica, di fisica, di logica e di filosofia. Godeva di grande prestigio a Roma, soprattutto per il suo eccezionale intuito nel cogliere l’origine delle patologie nei malati. Questa notevole abilità diagnostica colpiva i pazienti e accresceva la sua fama, ma suscitava anche le gelosie degli altri medici e gli procurò addirittura accuse di stregoneria.