Iniziamo facendo un po’ di chiarezza sui termini, di modo che sia più facile comprendere un argomento scientifico che riguarda una condizione così delicata come l’autismo e una modalità per trattarne i sintomi.
Dai termini “neuro” e “feedback” ossia risposte neurologiche si ottiene la parola neurofeedback per categorizzare quelle tecniche che usano esami neurologici in grado di monitorare le attività cerebrali, come l’elettroencefalogramma (EEG), ad esempio, per modificare in meglio le attività cerebrali dei pazienti. Largamente impiegato nella psichiatria, nella psicologia clinica e nella neuropsichiatria per trattare disturbi di vario genere come ansia, depressione, deficit di attenzione, epilessia, iperattività, schizofrenia, cefalee si è pian piano esteso al trattamento dei disturbi dello spettro autistico.
Si tratta di indurre delle attività cerebrali (input) per ottenere delle risposte fisiche (output) diverse da quelle che solitamente si avrebbero in pazienti affetti da alcuni dei disturbi sopra citati. Questo trattamento, inoltre, viene costantemente monitorato (feedback) tramite EEG, solitamente, per avere contezza delle risposte cerebrali dei pazienti.
L’idea è mutuata da ambiti scientifici molto lontani come la cibernetica e l’elettronica, che sono fondati proprio sul concetto di input e output in maniera schematica e incontrovertibile: ad un certo impulso (input) può e deve corrispondere una certa risposta (output), e nessun altra. I ricercatori delle neuroscienze che adottano sistemi di neurofeedback per l’autismo, negli ultimi anni si sono posti un nuovo obiettivo: fare in modo che l’input produca un output, che a sua volta faccia da input per un nuovo comportamento. Tradotto con un esempio pratico si può pensare ad un sistema neurologico deputato al movimento delle gambe per effettuare dei passi in pazienti che da soli non riescono più o non riescono proprio, sempre sotto il continuo monitoraggio con EEG.
Il sistema invia dei segnali (impulsi, input) che fanno muovere le gambe per camminare, di contro il sistema stesso per funzionare e procedere con ulteriori passi dopo il primo avrà bisogno di altre informazioni dal corpo, di tipo propriocettivo che indichino la posizione e i cambiamenti avvenuti passo dopo passo. Ragionandoci, queste informazioni trasmesse di contro al sistema non sono altro che output del processo iniziale: si è creato così un flusso ininterrotto di informazioni, che tradotto su un piano fisico consente alla persona – in quel caso – di camminare fluentemente.
Mutuando questo concetto e questo tipo di trattamento, i neuroricercatori hanno applicato questo metodo ai pazienti affetti da disturbi dello spettro autistico. Il neurofeedback nell’autismo consiste, sempre sotto controllo EEG, nell’infondere delle onde delta – che si sa essere mancanti nei pazienti affetti da questo disturbo – per calmare comportamenti eccessivi e nocivi per sé e per gli altri donando una maggiore stabilità all’individuo. Il passo successivo è far sì che il sistema usato per infondere le onde delta riceva dal cervello dello stesso paziente delle informazioni circa il suo cambiamento in tempo reale di modo che la quantità di onde necessaria venga regolata mano a mano. Quindi, per mezzo del neurofeedback nell’autismo il paziente diventa in grado di controllare la propria attività cerebrale, mantenendo costante il comportamento e alleviando così i sintomi della sua patologia.
L’obiettivo del trattamento dei sintomi derivanti dai disturbi dello spettro autistico è proprio quello di “modulare”, per così dire, le risposte del bambino/paziente: cercare di incanalare le sue energie, le risposte eccessive e magari pericolose per sé e per gli altri, per rendere la sua attività più costante e, di conseguenza, meno disagevole per sé stesso. Per questo il trattamento di neurofeedback per l’autismo è ora volta a creare un circolo tra input e output, per prendere in elevata considerazione le risposte neurologiche del paziente stesso e regolare costantemente e in tempo reale il trattamento necessario.